Partiamo da due considerazioni, l’una – come vedremo poi – strettamente connessa all’altra. La popolazione regionale invecchia progressivamente. Gli over 64 in regione sono oltre un milione, pari al 23,6% del totale dei residenti e si stima che entro il 2030 circa 1 persona su 3 avrà più di 64 anni.
Questo trend demografico ormai consolidato va di pari passo con una crescita netta della spesa regionale per funzioni e livelli di assistenza ai cittadini residenti che, in Emilia-Romagna, aumenta con un ritmo medio annuo dell’1% (ma nell’ultimo biennio si è superato abbondantemente il 2%). E non è tutto, perché in dieci anni la spesa ospedaliera per la popolazione anziana è cresciuta di cinque punti percentuali e secondo le stime Nomisma, essa tenderà a raggiungere la quota del 57% nel 2030 superando i 2 miliardi di euro.
Riassumendo: la popolazione over 64 aumenta, la richiesta di assistenza e cura anche, la spesa sanitaria e di welfare altrettanto, le risorse, tuttavia, quelle no, quelle calano anno dopo anno. Come si può, dunque, in questo contesto, riuscire a far quadrare i conti? Ossia, come, far andare a braccetto riduzione dei costi (a spesa perlomeno invariata) e mantenimento di elevati standard qualitativi di assistenza e cura? La chiave di tutto, per chi siede ai più alti livelli istituzionali, da Roma in su, si chiama razionalizzazione efficiente, due parole che si potrebbero tradurre in ‘spendiamo uguale ma spendiamo meglio’.
Si potrebbero tradurre, abbiamo detto, e qui il condizionale è d’obbligo, perché alla fine contenere i costi e spendere meno è concretamente più semplice che spendere meglio. Inutile nasconderlo, il difficile non è risparmiare o razionare le risorse pubbliche, semmai è continuare ad offrire un welfare ed una sanità di qualità. In Emilia-Romagna, sinora, si è riusciti nel compito più complesso. I conti, infatti, dimostrano che la nostra è ancora una regione virtuosa, in grado di garantire elevati standard di cura con saldi attivi. Ma per quanto? E a quale prezzo? Di fronte alle due tendenze con le quali abbiamo aperto questa lettera – invecchiamento progressivo della popolazione e aumento progressivo della spesa ospedaliera – occorre infatti chiedersi quanto potrà ancora ‘tenere’ il sistema. Se lo chiede il Cupla regionale, se lo chiede anche il responsabile Area Sviluppo Territoriale di Nomisma Luigi Scarola sul Corsera e se lo è chiesto, sin dal 2010, la stessa Regione Emilia-Romagna. “L’innalzamento dell’efficacia della cura stanno spostando i profili epidemiologici prevalenti verso le cronicità” scrive Scarola sottolineando come, negli anni, anche grazie alla qualità dei nostri ospedali, si sia allungata l’aspettativa di vita e nel contempo sia cresciuta l’esigenza di combattere patologie croniche, dal diabete allo scompenso cardiaco all’insufficienza renale.
Davanti a questo modello – che funziona bene ma che ha costi elevatissimi e sempre meno ‘sopportabili’ – la Regione ha intrapreso un complesso percorso di riordino al fine di sgravare gli ospedali di quella mole di casi ‘non gravi’ che spesso ingessano il sistema e fanno lievitare i costi (pensiamo ai tanti codici bianchi e verdi nei pronto soccorso locali), dirottando, nella fase non acuta, il cittadino in strutture diverse (e meno costose) dall’ospedale stesso.
Con il primo step di questo percorso si è abbassata l’incidenza della spesa sanitaria regionale legata all’ospedale al 41%, contro una media nazionale che si attesta al 51%, ma è dal secondo passo – quello della cosiddetta ‘Medicina di comunità’ – che dipende la famosa ‘tenuta’ del sistema socio-sanitario regionale e territoriale. E qui arriviamo a quella che è stata definita come ‘la rivoluzione madre’, l’istituzione delle ‘Case della Salute’, quei ’nodi’ territoriali della nostra sanità nei quali spostare l’assistenza e la cura delle cronicità dei pazienti prima e dopo la degenza ospedaliera.
Il prossimo 8 febbraio la delibera con la quale la Regione le ha previste quali ‘nuovi nevralgici punti di riferimento socio-sanitario a servizio del cittadino’ compirà 8 anni. Ma cosa sono, quante sono, dove sono e cosa fanno concretamente le Case della Salute? A che punto è quella rivoluzione partita agli inizi del 2010? Tutti interrogativi interessanti, ai quali il CUPLA di Forlì-Cesena, Comitato Unitario Pensionati del Lavoro Autonomo che in provincia associa oltre 28mila pensionati, vuole fornire una risposta dettagliata organizzando il prossimo 10 novembre il convegno pubblico sul tema ‘Case della salute e medicina di comunità – Una rivoluzione sanitaria tanto preziosa quanto poco conosciuta’. C’è la convinzione, infatti, che poco sia stato fatto in questi anni per informare il cittadino, l’uomo della strada, in merito alla nuova organizzazione della medicina di comunità o prossimità.
Il modello previsto dalla Regione vede nelle Case della Salute il “luogo fisico specifico per l’accesso alle cure primarie, in cui si concretizzi h24 e 7 giorni su 7, sia l’accoglienza e l’orientamento del cittadino ai servizi, che la continuità dell’assistenza, la gestione delle patologie croniche, il completamento dei principali percorsi diagnostici che non necessitano di ricorso all’ospedale, ma anche un’opera di prevenzione di determinate patologie e un’azione di orientamento ad uno stile di vita più sano”. Se questo è il cosiddetto modello tracciato dalla Regione (per il quale a fine 2016 sono stati stanziati ulteriori 68milioni di euro), declinato sul nostro territorio provinciale in 9 presidi attivi ai quali dovrebbero presto aggiungersene altri due, la realtà delle cose sembra purtroppo ben diversa e gravata da diverse criticità insite al modello stesso. In primis, come sottolineato anche di recente dal Direttore generale dell’Ausl Romagna, Marcello Tonini, “dalla scarsa collaborazione di molti medici di medicina generale”, che della ‘medicina di prossimità’, invece, dovrebbero essere il perno. C’è poi un secondo aspetto che influisce sull’efficacia e la penetrazione popolare del ‘modello’: il grado di dotazione/complessità di queste strutture. Tra le province romagnole, infatti, non mancano le differenze. Delle 9 attive in provincia, ad esempio, 5 sono classificate come ‘grandi e ad elevata complessità’, le stesse che può vantare anche una provincia come Ferrara (che in totale ne ha 7 pur avendo circa 30mila residenti in meno) o come Parma (che di attive ne conta ben 16). Il CUPLA, Coordinamento nato per tutelare i pensionati del Lavoro Autonomo da anni impegnato in attività di informazione ed educazione sui temi socio-sanitari e del welfare, nonché sul fronte della promozione di buone e innovative pratiche sociali volte a stimolare l’invecchiamento attivo della popolazione over 64, con l’incontro pubblico desidera quindi fare il punto della situazione in merito alla nuova strutturazione delle ‘Case della Salute’ sul territorio provinciale analizzando nel dettaglio cosa, ad oggi, sia cambiato nel rapporto tra il cittadino – colui che quotidianamente necessità dei servizi socio-sanitari – e il sistema territoriale della cosiddetta ‘medicina di comunità’.
Cupla Forlì-Cesena